Recensione: “Spada” di Alexander Tripood

« Non c’è abilità in te, non c’è talento. Non c’è morale! Non hai le forze per affrontare le conseguenze di ciò che hai fatto. Però riesci ogni volta a cavartela! Ma voglio dirti una cosa: nelle storie, per i personaggi come te non c’è mai un lieto fine! »


Provate ad immaginare come il passato possa influenzare il futuro nella struttura delle città, nelle industrie e nelle mode del momento. Aggiungete, quindi, un tocco fantasy, un pizzico di steampunk e cyberpunk ma soprattutto un eccentrico personaggio di strada.

Come risultato avrete “Spada”, fortunata creazione di Alessandro La Monica (in arte Alexander Tripood) autoprodotta e presentata al Cartoomics 2015 ed ora pubblicata da Shockdom in una nuova veste e con un capitolo inedito.
Ci troviamo ad Anghywir, metropoli futuristica dalle tinte medievali. Qui la vita scorre frenetica ed il progresso è, come ben ipotizzabile, all’ordine del giorno.Watt Weland è un tranquillo ragazzo del borgo di Anghyburg, addetto alla manutenzione di droni-postino per la compagnia Knightzon. In un giorno di consegna si ritrova nel bel mezzo di una rapina, scontrandosi letteralmente con Spada Rodriguez: un apparente barbone trasandato che mette pianta stabile in casa sua. Ma chi è Rodriguez in realtà e cosa si cela dietro la sua assidua ricerca?
La prima cosa che salta all’occhio è sicuramente l’ambientazione della storia, non solo per le sue meccaniche, ma soprattutto per l’impatto visivo. Le tavole di Alexander, disegnate e colorate tutte rigorosamente ad acquerello, introducono il lettore in un mondo tanto affascinante e dall’aria antica quanto in lento degrado. I colori sono accesi e delicati al tempo stesso ed anche se il tratto non dà spazio ad ogni singolo dettaglio, ogni elemento ha la sua specifica caratterizzazione, dal borgo alla città ricca, dai vestiti semplici alle armature robotiche.
Difficile individuare chi tra Watt e Spada sia il personaggio predominante: viene presentato uno, poi l’altro; ognuno con la propria storia e i propri misteri ma entrambi si adattano vicendevolmente, creando un duo divertente e degno dei più famosi eroi dei fumetti.
La trama, infine, è originale e complessa, un prodotto che intrattiene il pubblico e ne stimola la curiosità a sapere come le vicende si svilupperanno nei prossimi capitoli.

Se fin da subito un autore riesce a coinvolgere il pubblico, ha buone possibilità di far parlare di sé e diffondere la propria arte.

Recensione: “Lùmina” di Linda Cavallini e Emanuele Tenderini

« -Hai paura?

-No, credo di no. Anche se non avevamo mai interferito con altri universi a questo livello. Trascinare un essere vivente nella nostra dimensione potrebbe essere molto pericoloso!
-Ne siamo consapevoli… tuttavia non ci sono alternative! »


Finalmente riesco a dedicare tempo meritato per un’opera che fin da prima della sua pubblicazione ha suscitato in me molta curiosità.

“Lùmina” è un progetto indipendente, nato dalla mente e dal talento di due autori già avviati nel campo dell’editoria, che deve vita e successo al crowdfunding su Indiegogo dello scorso anno. 
La principale particolarità, quella che sicuramente attrae e seduce la vista, è la tecnica di colorazione sperimentata da Tenderini stesso, l’Hyperflat, che si amalgama perfettamente con il tratto delicato e fluido della Cavallini.
Kite e Miriam sono due fratelli, l’uno più vivace ed estroverso dell’altra, orfani di genitori ma che da un’esperienza drammatica come questa hanno trovato la forza di rimanere uniti. Tornando a casa dopo una giornata di scuola, si ritrovano in un mondo completamente diverso dal nostro: Lùmina. L’atterraggio non è dei migliori, i due ragazzi si trovano in mezzo ad uno scontro incrociato tra creature tanto diverse d’aspetto quanto di ideali. Ben presto scoprono di essere i “Portatori” del Fej Farok, una divinità in grado di viaggiare tra le dimensioni. 

Purtroppo, quello che si evince dal volume, è che la storia sia solo un’anteprima di quello che, probabilmente, dovrà essere effettivamente. Si arriva velocemente alla fine e tanti sono gli interrogativi che rimangono. 

Solo per questo, il fumetto è un po’ debole di contenuti; la sola forza è, come già detto prima, la qualità del disegno e delle pagine.
Considerando il successo che ha avuto, Cavallini e Tenderini hanno la sicurezza di un’idea vincente e che piace. Ci auguriamo, a questo punto, che sviluppino velocemente il mondo che hanno in testa, per portarlo su carta e mostrarcelo.

Recensione: “Niourk – Il bambino nero” di Olivier Vatine


« All’epoca credevo ciecamente ai poteri della collana del vecchio… a quelli dei morti… e credevo agli dèi. »

Una pura, piccola perla.

L’opera del francese Olivier Vatine non può essere definita altrimenti. Commento contrastante, rispetto a ciò che viene raccontato in questa storia, impregnata di aria radioattiva e puzzo di devastazione.

Nel futuro si ritornerà nel passato; ciò che rimane della civiltà terrestre regredisce all’Età della Pietra.

In mezzo al deserto, in un’ormai utopica zona a sud dell’America, è stanziata la tribù di Thoz, il guerriero più forte, di ritorno da una battuta magra di caccia. Il vecchio “Lui-che-sa” è l’unico che può contattare gli dèi e chiedere che ci sia nuova selvaggina; così parte, sapendo già che al suo ritorno il bambino nero dovrà morire: è lui  la causa delle loro disgrazie. Ma passa il tempo e il saggio scompare. Il bambino, preso da sentimenti contrastanti, decide quindi di avventurarsi da solo attraverso i monti cubani per cercarlo.


Questo è l’inizio di un lungo viaggio, alla scoperta dell’antica civiltà. Incontrerà l’orso, il suo unico amico, conoscerà i mostri della Terra, riceverà in dono il fuoco degli dèi e rimarrà incantato di fronte alla dea di pietra. Un percorso verso la salvezza. Un percorso verso “Niourk”.

Non voglio raccontare altri particolari della storia, rischierei inutilmente di dare anticipazioni esagerate. “Niourk” è un fumetto che va gustato e letto senza sapere troppo, un omaggio alla fantascienza classica in chiave contemporanea. 

Le meravigliose e colorate tavole di Vatine lasciano affascinati pagina dopo pagina, fino al commovente finale. Questo si lega ai brevi dialoghi e ai pensieri del bambino, facendo quasi trasparire una storia delicata e poetica ma che in realtà porta in auge gli errori dell’umanità, troppo impegnata ad impugnare un’arma piuttosto che stringersi a vicenda la mano e puntare verso il benessere e il progresso di tutti.

I potenti hanno sempre avuto la convinzione di sapere cos’è meglio, cosa è giusto, cosa deve essere fatto. La soluzione stavolta è nelle mani di un bambino, proprio quello che più viene odiato per il colore della pelle e l’origine, che agirà diversamente, forse nel modo più inaspettato possibile.

Ha fatto bene? Ha fatto male? Verrà giudicato, verrà criticato. Questo è ciò che di meglio si sa fare, ora.

Ma quel che importa è leggere la sua storia. Raccontarla ai più giovani. Per non dimenticare.


Recensione: “Agorafobia” di Dario Moccia e Fubi

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Che cos’è l’agorafobia?
Il buon caro Zanichelli dà la seguente definizione:
“Paura morbosa degli spazi aperti quali piazze, strade larghe e simili.”
Fin qui tutto chiaro… o forse no?

È difficile riuscire a dare una spiegazione esaustiva di certe cose, specie quelle che riguardano la psiche. Anzi, è impossibile stare al passo con gli studi legati ad essa, sempre in continuo cambiamento ed evoluzione.


Soprattutto, chi cade nel pozzo nero delle fobie non sempre potrebbe essere d’accordo con chi, nel buio, fortunatamente non si è mai ritrovato.

Ma l’arte, come in questo caso, viene in nostro aiuto.

“Agorafobia” è la quotidianità di un uomo. Senza nome, senza età, dall’aspetto solo accennato. Passa le giornate decantando gli orari dei treni in arrivo e partenza. Oggi è una bella giornata: il letto è morbido, nessun ritardo.
Il giorno migliore di sempre.
Di sottofondo, il regolare e tranquillizzante “Tu-tum tu-tum”.

Basta un rumore di troppo per fargli perdere il controllo. 
Basta un ricordo nel momento giusto per scuoterlo e spronarlo ad essere di nuovo libero.
“Agorafobia” è la lettura che non ti aspetti. Non tanto per il modo in cui il tema viene trattato, quanto per l’autore di questa idea.

Chi conosce e segue il mondo di Youtube Italia, avrà sicuramente anche solo sentito parlare di Dario Moccia, il ragazzo toscano che ha creato la “Nerd cultura”, diffondendo nel web le sue opinioni fumettistiche e simili. Ciò che ho sempre apprezzato di lui, oltre che la sua invidiabile capacità di esprimersi di fronte ad una telecamera, è proprio il suo modo di fare: estroverso, divertente e dalla battuta facile. Tutto il contrario rispetto a ciò che ha effettivamente deciso di creare; una sorpresa in più sicuramente gradita.

A maggior ragione, sarebbe davvero interessante poter parlare del suo fumetto con lui, per capire come mai ha deciso di fare questa storia e perché. 

Questo fumetto riesce nell’impresa di inizio articolo? Sì. In parte. 
L’interpretazione di ciò che prova il protagonista è buona, d’impatto. Ma troppo frenetica, specie nello slancio finale. Sarebbe gradito un maggiore approfondimento o degli elementi presentati al pubblico in maniera graduale, scandendo di più i tempi. Chi legge, però, rimane coinvolto e stravolto man mano che va avanti; si sente in gabbia, proprio come l’uomo, fino alla catarsi finale.
Considero “Agorafobia” come un’anteprima, un racconto introduttivo nella mente di un duo agli albori che può dare al mondo dell’editoria tanto, tanto di più. 
C’è come la sensazione che il messaggio di fondo sia: “Non avete visto ancora niente.”

Prendetevi del tempo per leggere un’opera meritevole. Se vi piacciono le storie crude e psicologiche, quelle che vi danno un colpo nello stomaco, questa ne è un esempio. Soffermatevi a guardare le tavole disegnate da Fubi, dal tratto sporco, impreciso ma netto, disturbante in certi punti; perfetto per una storia impressionante come questa.
Prendetevi del tempo per comprendere. Non abbiate fretta, rifletteteci. Lasciatelo da parte, riprendetelo. Date una chance, non ve ne pentirete.



Recensione: “Morgan Lost” di Claudio Chiaverotti

« Un cacciatore di serial-killer è lui stesso un pazzo, tormentato da incubi che cerca malamente di allontanare, distogliendo lo sguardo… come seppellire uno zombie pochi centimetri sottoterra » 


Dopo mesi di silenzio, torno sul blog per parlare di quello che ultimamente è sicuramente uno dei fumetti più chiacchierati del momento: Morgan Lost, ultima creatura della Sergio Bonelli Editore che prende vita grazie alla mente di Claudio Chiaverotti (sceneggiatore di Brendon) e ai disegni di Michele Rubini.
L’albo, “L’uomo dell’ultima notte”, è uscito in edicola il 20 Ottobre e avrà cadenza mensile. Con questa storia si ha una sorta di ritorno alle origini: al contrario di Orfani o Lukas, la serie non è stata concepita in stagioni bensì su vasta scala, “Finché dura”, come dichiarato da Chiaverotti.

Prima di essere un eroe, Morgan Lost è un uomo come tanti altri, proprietario di una sala di proiezione di B-Movie, felicemente fidanzato con Lisbeth. La sua vita, in una notte, cambia radicalmente. Per lui è impossibile dimenticare, perché da quel momento in poi, ogni volta che si guarderà allo specchio, vedrà sul volto una maschera nera tatuata. Diventa, così, uno dei più conosciuti cacciatori di taglie della città. Nessun potere, solo la volontà di esorcizzare i propri demoni.

Ci troviamo quindi catapultati a New Heliopolis, una metropoli selvaggia e al limite della follia, in cui le star in voga sono i serial killer, i “mostri” più crudeli del momento. Il notiziario ne presenta una carrellata su grande schermo, mentre la folla acclama e incita la conduttrice a proseguire. 
In ogni pagina l’atmosfera è fredda come la neve che cade incessante e inquietante come i tormenti che arrivano dall’oceano e che appaiono agli occhi del protagonista con tinte bianche e nere smorzate da sprazzi rossi come il sangue.
“…ma su una cosa Finker ha ragione: sono diventato un cacciatore. A volte posso sentire l’urlo della città, ed è come se ci fossi solo io… la notte… e tutti i mostri là fuori. Non esiste niente di più bello.
Le premesse per una storia thriller di successo, dai toni pulp tipici dei migliori film del genere, ci sono tutte. Rispetto ad altri personaggi Bonelli, risulta più semplice per i lettori immedesimarsi in questo uomo, armato solo di una pistola, e in questo mondo, metafora di una società sempre più in decadenza. L’attenzione non cala mai, fino all’ultima pagina; si è sempre più curiosi di scavare non solo nel passato del protagonista, ma soprattutto nel futuro, conoscere i nemici che si ritroverà ad affrontare e gli incontri all’apparenza casuali ma inevitabili. Questo primo numero lascia diversi spunti di riflessione ma anche tanti interrogativi che, possiamo avere la certezza, verranno risolti nei prossimi episodi.

Al momento siamo al fine primo tempo, ma affrettatevi a rimediare la lettura e ad accomodarvi per la seconda parte: “Non lasciarmi” sarà in edicola dal 19 novembre.