
Death Note: trailer e data d’uscita per il film targato Netflix

« Era il 1898, a Wonderland sentivamo che sarebbe accaduto qualcosa di strano, si percepiva nell’aria, il cielo aveva perso colore. Lo sentivamo addosso il presentimento che al nostro carissimo amico Lewis, era accaduto qualcosa. »
Quello di oggi, purtroppo, non è uno di questi casi.
“Io sono Alice” è un racconto di circa una decina di pagine scritto da Valentina Agosta, che gentilmente mi ha chiesto di leggerlo e recensirlo.
La storia scorre velocemente, proprio per la sua lunghezza. Il tempo di un tè in compagnia del Cappellaio Matto.
Qualcosa d’incomprensibile sta accadendo a Wonderland, Alice e i suoi amici lo percepiscono. Un’ombra oscura incombe sul loro mondo, poco tempo rimane per comprendere come salvarsi. Di una cosa sono certi: qualcosa di terribile è accaduto al loro creatore. Ad Alice non rimane che un’unica cosa: risalire la tana del coniglio in cui anni prima era precipitata e salvare Carroll e Sottomondo.
La storia, seppur breve, ha delle intriganti premesse. Quello che però non ho potuto ignorare, sta proprio alla base. Parecchi sono gli errori grammaticali e ortografici che ho trovato, anche piuttosto gravi come i tempi verbali sbagliati. Alcuni passaggi risultano confusi, come le descrizioni messe tra virgolette come se facessero parte di un dialogo; oppure parti scritte in prima e in terza persona, nonostante il punto di vista rimanga sempre quello della protagonista. Questo, ma anche altro.
Non ho compreso il rapporto che s’instaura tra Alice ed un altro personaggio, i quali da perfetti sconosciuti d’un tratto si scambiano un bacio. Non ci sono elementi sufficienti per un’evoluzione di questo tipo, per questo ho reputato il racconto troppo poco approfondito.
Un’idea carina, rovinata alla radice.
« Circondata dalle menzogne e attorniata dai segreti, Silke si rifugiava sempre più spesso negli stabilimenti termali di Seefeld: un’enclave di verità, una zona franca in cui uomini e donne – avvolti dal vapore mentolato del bagno turco – si dedicavano al benessere del corpo in piena nudità. Niente più acconciature o vestiti: niente più trucchi o gioielli. Alle terme di Seefeld le cicatrici, le occhiaie, le vene varicose, i seni flaccidi e la cellulite finalmente trionfavano: svelando a Silke che, per fortuna, la fragilità si trovava ovunque: e non soltanto dentro di lei. »
Ad accogliere il suo dolore, la donna troverà dei personaggi particolari e unici, inaspettati ma in attesa da sempre del loro incontro. Nuovi profumi, l’esplosione di colori, abitudini a lei sconosciute la stimoleranno ad intraprende un altro tipo di cammino: quello verso la felicità e il sorriso sincero per la vita.
Spesso le coincidenze, anche quelle più spiacevoli, innescano eventi che sfuggono al nostro controllo. L’unica cosa possibile da fare è sottostare alle imposizioni oppure trovare il coraggio di fare qualcosa di azzardato ed imprevisto agli occhi degli altri e andare alla ricerca di ciò che può farci stare davvero bene.
“I colori del bianco” ha uno stile semplice e scorrevole, ma una storia intensa e coinvolgente che fa scappare un sospiro di sollievo e soddisfazione alla sua conclusione. La forza dei colori assume un ruolo importante, dopo tanti anni ad osservare una vita monotona e pallida.
Nasce il desiderio di essere un po’ Silke: poter conoscere le persone che le miglioreranno la vita per riuscire a raggiungere una visione prepotentemente positiva, senza pensare subito ad arrendersi di fronte agli ostacoli, sarebbe l’ideale per chiunque sia fragile e ancora alla ricerca della giusta filosofia.
Nicola Lecca, che si definisce artigiano della parola e ancora scrive con la penna beandosi dell’inchiostro che gli colora le mani, studia i propri scritti per anni, viaggiando e conoscendo persone e sentimenti in grado di ispirarlo. I suoi libri, nonostante siano veloci da leggere, sono talmente travolgenti da lasciare addosso al lettore una seconda pelle, che rimarrà con lui per lungo tempo. Per me, “Hotel Borg” rimarrà nel cuore e nelle classifiche di sempre.
Distanziando così tanto un’opera dall’altra, è possibile notare un cambio di stile, che rimane costantemente incisivo nella mente di chi legge. Tematiche forti vengono trattate con gentilezza, precisione e sentimento, come una fiaba che nel suo incanto non manca di essere cruda e d’impatto, come lo è il mattone della realtà.
Nicola Lecca è uno scrittore italiano ancora troppo, ingiustamente, poco conosciuto, ma che silenziosamente ti entra dentro e ci rimane. Ad ogni lettura è come salutare di nuovo un caro amico.
Il libro è acquistabile in tutte le librerie e comodamente su Amazon, a questo link.
Questo è successo anche nel cinema, la stessa emozione l’ho provata per il mio primo film, un lungometraggio realizzato in Cile: l’unico italiano in una produzione totalmente cilena. Passo dopo passo mi sono fatto valere fino a farmi notare anche in Italia.
Iniziare a disegnare per “Dylan Dog” è stata una grande emozione, perché è uno dei fumetti che leggevo da ragazzino. Era il mio mito e non credevo ce l’avrei mai fatta.
Però poi avevo bisogno, per come sono fatto io, di qualcosa che non avesse già delle pareti e fosse interamente mio. Avevo in mente questa storia da tempo, un soggetto che avevo già fatto leggere in Bonelli: “Le sette città”. Con loro, però, sarebbe stata tutta un’altra cosa: più pulita e commerciale. Quando mi è stata offerta l’occasione da Edizioni Inkiostro l’ho colta al balzo: ho ritirato il soggetto che avevo lasciato in Bonelli per trasformarlo in “Paranoid Boyd”. Ne sono estremamente orgoglioso.
Con questo non intendo dire che la Sergio Bonelli mi limiti, il mio comportamento è del tutto naturale, non mi verrebbe da avere un atteggiamento da “Paranoid Boyd” con “Dylan Dog” e viceversa: sono due mondi completamente diversi e io riesco ad essere un po’ uno e un po’ l’altro. Non sono una persona impostata, come sono invece tanti autori specie con le interviste e i propri scritti. Mi reputo un punk, anche se d’aspetto non si direbbe, ma lo sono sicuramente come filosofia di vita.
A questo proposito, è bello che tanti mi dicano di essere dispiaciuti che con il settimo volume “Paranoid Boyd” finisca. E’ così che doveva andare e in questo sono coerente, ma non è detto che non ci possano essere dei ritorni in futuro. Potrebbe essere carino fare una storia in cui William Boyd diventa vivo e perseguita il suo autore per vendicarsi di tutto quello che gli ha fatto passare, un po’ alla Stephen King in un certo senso.
Ci sarebbe un lato psicologico analizzabile, in riferimento a me che mi rispecchio in lui, ma lascio questa cosa a persone di competenza.
La religione, per me, è la stessa cosa: la Chiesa non ha significato. Posso sembrare sacrilego e blasfemo, ma credo di essere molto più credente di tanti che vanno a sentire messa tutte le domeniche. Ho le mie idee e le porto avanti senza convincere altri a seguirle. Alla fine, turbare può tornare sempre utile. Se “Paranoid Boyd” turba è perché probabilmente è in grado di suscitare domande, chissà che risposte si possono trovare.
Sei un artista specializzato nel genere horror. Trovi che ci sia un aspetto positivo nella paura e nell’ossessione, elementi che sfrutti per raccontare storie che vengono vendute e apprezzate?
Mi trovo bene nel genere horror perché è come una casa, lo utilizzo per raccontare qualcosa d’altro. L’ho scelto perché ce l’ho nel sangue, fin da piccolo seguivo fumetti e film di questo tipo, conseguentemente è diventato un ambiente in cui mi trovo a mio agio. Non mi interessa, però, l’horror in sé nei suoi sottogeneri: splatter, mostri, slasher. Possono essere tutte cose divertenti, ma non sono il fine che mi prefiggo, nonostante siano la base da cui parto.
L’aspetto positivo è che c’è tanta oscurità in quello che scrivo, ma c’è sempre e comunque un barlume di luce alla fine.
Mi reputo nichilista, ci sono arrivato dopo tanto tempo dedicato alla scrittura. Non sopporto la società, né le persone, spesso nemmeno me stesso e questo traspare nei miei fumetti; nonostante tutto nutro, comunque, della speranza.
Anche in “Paranoid Boyd” si vede questo aspetto. Seguendo William nei suoi deliri, diventa quasi un personaggio positivo, un eroe. Il bello di questo fumetto è che a seconda del pensiero di ogni lettore la chiave di lettura è differente. Non dirò come finirà, ma certamente avrà un finale in linea con le opinioni di ognuno. Ci saranno dei colpi di scena, come ci sono sempre stati, ma in base alla sensibilità personale tutto cambia: se sei un po’ William vedrai una piccola luce positiva nel buio.
Da sceneggiatore, vedresti di buon occhio un adattamento cinematografico di “Paranoid Boyd”?
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Travis Fimmel, alias Ragnar Lothbrock di “Vikings” |
Assolutamente sì. Mi piace tanto l’attore protagonista della serie “Vikings”, è identico a come me lo immagino. In realtà, quando è nato “Paranoid Boyd” ho preso ispirazione da un modello norvegese trovato sfogliando una rivista di moda.
Lavorando nel mondo del cinema sfrutto molto come immagine di riferimento attori veri per personaggi di mia invenzione, è utile per aiutare poi gli altri disegnatori a comprendere meglio l’idea che ho nella mia testa.
C’è un po’ di tutto questo in quello che faccio.