Dal 03 al 05 marzo si è svolta a Milano la nuova edizione del Cartoomics 2017, una delle fiere del fumetto cittadine più conosciute.
Dopo due anni, finalmente, ho avuto modo di tornarci, precisamente nella giornata di domenica: l’esperienza è stata positiva e molto interessante.
L’evento che ha reso speciale il mio pomeriggio, tra gare cosplay, vestiti belli da far piangere ogni volta il mio portafoglio e fumetti che fanno sempre gola, è sicuramente l’intervista che sono riuscita a fare ad Andrea Cavaletto, uno degli sceneggiatori di “Dylan Dog” e autore di “Paranoid Boyd”, serie che ho
recensito poco tempo fa sul blog, nonché scrittore di diversi film.
Non capita tutti i giorni di poter stare a stretto contatto con un artista che ha saputo conquistarti attraverso le sue storie. Andrea mi ha messo subito a mio agio con il suo fare amichevole e molto alla mano. Nel corso della fiera ha dato tutto sé stesso per riuscire a soddisfare i numerosi fan accorsi allo stand della Edizioni Inkiostro per comprare una personale copia del suo fumetto e farselo dedicare.
Ringrazio nuovamente Andrea Cavaletto per tutto il tempo che ha voluto dedicarmi, rispondendo alle domande poste in maniera decisa e per il dialogo stimolante che siamo riusciti ad instaurare.
Cosa provi ogni volta che qualcuno ti chiede di rilasciare un’intervista? Sei abituato o ti imbarazza? Ti lusinga oppure non vedi l’ora di metterti in mostra?
Mi diverte. Sono un animale da palcoscenico quindi quando mi chiedono delle interviste sono ben contento di farle. Quello che mi piacerebbe è che mi facessero domande più particolari delle solite. Se c’è una domanda a cui mi sono stufato di rispondere è “Come sei nato come autore?”, perché ormai l’ho detto talmente tante volte che basta cercare la risposta su Internet per saperlo.
Quali sono le sensazioni che hai provato nel gestire e vedere pubblicata una storia totalmente tua come “Paranoid Boyd” rispetto a “Dylan Dog”?
Per spiegartelo bene devo partire proprio dagli inizi. Ho esordito come autore completo per gli Stati Uniti, con una graphic novel interamente disegnata e scritta da me: “World House”. Quella è stata una grandissima emozione, prima di tutto perché era il mio primo lavoro professionale, addirittura in America dopo aver ricevuto un sacco di rifiuti in Italia perché avevo uno stile “strano” rispetto ai canoni classici, derivante dall’underground.
C’è stato, però, un periodo in cui ero molto avvilito, perché non riuscivo ad ottenere quello che volevo: la pubblicazione in Italia. Ho avuto l’intuizione di inviare dall’America a qui i miei disegni e solo allora ci sono riuscito, ho avuto qualcosa da far vedere. Spesso in Italia funziona che prima bisogna farsi notare all’estero, solo dopo c’è la possibilità di essere considerati in patria.
Questo è successo anche nel cinema, la stessa emozione l’ho provata per il mio primo film, un lungometraggio realizzato in Cile: l’unico italiano in una produzione totalmente cilena. Passo dopo passo mi sono fatto valere fino a farmi notare anche in Italia.
Iniziare a disegnare per “Dylan Dog” è stata una grande emozione, perché è uno dei fumetti che leggevo da ragazzino. Era il mio mito e non credevo ce l’avrei mai fatta.
Però poi avevo bisogno, per come sono fatto io, di qualcosa che non avesse già delle pareti e fosse interamente mio. Avevo in mente questa storia da tempo, un soggetto che avevo già fatto leggere in Bonelli: “Le sette città”. Con loro, però, sarebbe stata tutta un’altra cosa: più pulita e commerciale. Quando mi è stata offerta l’occasione da Edizioni Inkiostro l’ho colta al balzo: ho ritirato il soggetto che avevo lasciato in Bonelli per trasformarlo in “Paranoid Boyd”. Ne sono estremamente orgoglioso.
Qual è il tuo rapporto con Edizioni Inkiostro rispetto a quello con Sergio Bonelli Editore?
Il mio rapporto è a prescindere buono con tutti: ho lavorato con un sacco di case di produzione di cinema e case editrici, dalle più piccole alle più grandi. Se c’è una caratteristica che mi appartiene è quella di essere piuttosto malleabile, mi adatto. So che c’è un certo comportamento da tenere con Bonelli e so che posso tenere un altro comportamento con Edizioni Inkiostro, tant’è che riesco a fare interviste diverse a seconda del personaggio di cui sto parlando. Se parlo di “Dylan Dog” uso un tono più professionale, invece con “Paranoid Boyd” (proprio perché è totalmente mio) mi esprimo come m’immagino possano essere le persone che lo leggono, posso permettermi di utilizzare un linguaggio “di strada”.
Con questo non intendo dire che la Sergio Bonelli mi limiti, il mio comportamento è del tutto naturale, non mi verrebbe da avere un atteggiamento da “Paranoid Boyd” con “Dylan Dog” e viceversa: sono due mondi completamente diversi e io riesco ad essere un po’ uno e un po’ l’altro. Non sono una persona impostata, come sono invece tanti autori specie con le interviste e i propri scritti. Mi reputo un punk, anche se d’aspetto non si direbbe, ma lo sono sicuramente come filosofia di vita.
Parliamo di “Paranoid Boyd”. Solitamente l’introduzione ad un fumetto è probabile venga totalmente saltata: anche se letta, è il contenuto dell’opera che rimane maggiormente impresso e di cui più si parla. A me è piaciuta molto quella che hai scritto, perché nella tua ansia e nelle altre affermazioni mi ci sono subito ritrovata. Cosa c’è di davvero autobiografico in “Paranoid Boyd”?
C’è veramente tanto di autobiografico, lo sento molto mio per quello. William Boyd ha tanto di quello che io mi sento di essere. La storia tocca tanti temi, tutti a me molto cari. Il fumetto va letto a più livelli, di base è intrattenimento anche se è la cosa che m’interessa di meno. Ho inserito mostri e demoni perché innanzitutto i disegnatori si devono divertire e poi perché sono elementi che a un lettore fa piacere vedere.
“Paranoid Boyd” è altro: è ciò che sta in mezzo al sangue e ai demoni. Ho usato parecchi specchietti per le allodole per riuscire a parlare di quello che mi sta a cuore. Io sono molto ansioso, paranoico e ipocondriaco, anche se non lo do molto a vedere sono una persona riflessiva e William è quello che io sarei se fossi lasciato totalmente allo sbando e se avessi avuto tutto un altro tipo di vita. Lui agisce come avrei agito io se mi fossi trovato nelle sue stesse situazioni. Per cui mi diverte anche portarlo allo stremo.
A questo proposito, è bello che tanti mi dicano di essere dispiaciuti che con il settimo volume “Paranoid Boyd” finisca. E’ così che doveva andare e in questo sono coerente, ma non è detto che non ci possano essere dei ritorni in futuro. Potrebbe essere carino fare una storia in cui William Boyd diventa vivo e perseguita il suo autore per vendicarsi di tutto quello che gli ha fatto passare, un po’ alla Stephen King in un certo senso.
Ci sarebbe un lato psicologico analizzabile, in riferimento a me che mi rispecchio in lui, ma lascio questa cosa a persone di competenza.
Rimanendo sulle tematiche che ti stanno a cuore, in “Paranoid Boyd” c’è una visione della religione controversa che trasmette messaggi forti attraverso una rappresentazione molto particolare; basti solo pensare al personaggio di Mamma Therese che fa chiaro riferimento ad una persona realmente esistita. Che rapporto hai con questo tema?
E’ molto complicata questa domanda, perché gioco molto sulle cose che scrivo. Do di me l’impressione di essere ateo o addirittura satanista, ma in realtà non è affatto così. Il mio rapporto con la religione è complicato per episodi accaduti nella mia vita. Provo amore e odio nei confronti di Dio e ho messo tutto nel fumetto. Ciononostante mi reputo una persona molto credente e proprio perché lo sono così tanto sono arrabbiato con un’entità che mi ha fatto dei torti. Le istituzioni, in generale, non le calcolo minimamente, non ne ho alcun rispetto.
Non do del “maestro” a nessuno e ho difficoltà a “sopportare” i capi negli ambienti di lavoro, per quanto sappia stare al mio posto.
Fatico a rapportarmi con qualcuno che è stato messo al di sopra di me. Devo essere io stesso a capire se quel qualcuno merita di starmi sopra, discutendone anche apertamente, faccia a faccia. Non prendo come oro colato quello che mi viene detto.
La religione, per me, è la stessa cosa: la Chiesa non ha significato. Posso sembrare sacrilego e blasfemo, ma credo di essere molto più credente di tanti che vanno a sentire messa tutte le domeniche. Ho le mie idee e le porto avanti senza convincere altri a seguirle. Alla fine, turbare può tornare sempre utile. Se “Paranoid Boyd” turba è perché probabilmente è in grado di suscitare domande, chissà che risposte si possono trovare.
Sei un artista specializzato nel genere horror. Trovi che ci sia un aspetto positivo nella paura e nell’ossessione, elementi che sfrutti per raccontare storie che vengono vendute e apprezzate?
Mi trovo bene nel genere horror perché è come una casa, lo utilizzo per raccontare qualcosa d’altro. L’ho scelto perché ce l’ho nel sangue, fin da piccolo seguivo fumetti e film di questo tipo, conseguentemente è diventato un ambiente in cui mi trovo a mio agio. Non mi interessa, però, l’horror in sé nei suoi sottogeneri: splatter, mostri, slasher. Possono essere tutte cose divertenti, ma non sono il fine che mi prefiggo, nonostante siano la base da cui parto.
L’aspetto positivo è che c’è tanta oscurità in quello che scrivo, ma c’è sempre e comunque un barlume di luce alla fine.
Mi reputo nichilista, ci sono arrivato dopo tanto tempo dedicato alla scrittura. Non sopporto la società, né le persone, spesso nemmeno me stesso e questo traspare nei miei fumetti; nonostante tutto nutro, comunque, della speranza.
Anche in “Paranoid Boyd” si vede questo aspetto. Seguendo William nei suoi deliri, diventa quasi un personaggio positivo, un eroe. Il bello di questo fumetto è che a seconda del pensiero di ogni lettore la chiave di lettura è differente. Non dirò come finirà, ma certamente avrà un finale in linea con le opinioni di ognuno. Ci saranno dei colpi di scena, come ci sono sempre stati, ma in base alla sensibilità personale tutto cambia: se sei un po’ William vedrai una piccola luce positiva nel buio.
Da sceneggiatore, vedresti di buon occhio un adattamento cinematografico di “Paranoid Boyd”?
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Travis Fimmel, alias Ragnar Lothbrock di “Vikings” |
Assolutamente sì. Mi piace tanto l’attore protagonista della serie “Vikings”, è identico a come me lo immagino. In realtà, quando è nato “Paranoid Boyd” ho preso ispirazione da un modello norvegese trovato sfogliando una rivista di moda.
Lavorando nel mondo del cinema sfrutto molto come immagine di riferimento attori veri per personaggi di mia invenzione, è utile per aiutare poi gli altri disegnatori a comprendere meglio l’idea che ho nella mia testa.
Caratteristica mia è che quando scrivo mi lascio influenzare molto da quello che sto vedendo in quel determinato momento. Le mie storie risultano realistiche anche per questo aspetto.
Sono istintivo, se mi succede qualcosa che fa scattare una scintilla, automaticamente la inserisco nel pezzo che sto scrivendo.
Ultima domanda, promesso. C’è qualche opera cardine che vorresti assolutamente consigliare?
Come fumetti “Preacher”: è incredibile come Garth Ennis sia riuscito a fare una serie grottesca ma allo stesso tempo drammatica e profonda. La serie tv non è all’altezza del fumetto.
Poi ci sono i classici: Sandman, il “Dylan Dog” di Tiziano Sclavi, Watchmen.
Come personaggio adoro John Constantine, ma solo per quanto riguarda la serie classica della Vertigo. “Paranoid Boyd” è nato anche perché ero orfano di un personaggio come lui.
Adoro Clive Barker, Cormac McCarthy, Chuck Palahniuk.
C’è un po’ di tutto questo in quello che faccio.