Recensione: “La mia prima volta 1” di Niloo

« Posso anche sbagliarmi, eh. Ma non sarebbe fantastico se fosse vero? »

Emozioni, fraintendimenti e insicurezze sono elementi alla base di qualsiasi storia d’amore adolescenziale, specie per gli shoujo giapponesi, le cui vicende amorose fanno sempre battere il cuore.
“La mia prima volta” di Niloo non fa eccezione, nonostante le tematiche siano riprese da moltissime altre opere dello stesso tipo, riuscendo a proporre una storia capace di strappare un sorriso, specie a chi sedici anni li ha passati da un po’.

Sedici è l’età che caratterizza Kiki, una ragazzina che desidera innamorarsi perdutamente di qualcuno. Grazie all’aiuto dei suoi migliori amici, la giovane trova il coraggio di interagire con Luke, l’ultimo arrivato nella sua classe. Affascinante, gentile e disponibile, il ragazzo sembra rispondere positivamente ai sentimenti provati da Kiki, e insieme iniziano una relazione, affrontando le gioie e i timori dell’amore, sentimentale e fisico.

La bravura di Niloo sta proprio nella capacità di affrontare in maniera matura ciò che passa nella testa degli adolescenti, dalla prudenza all’istinto, senza imbarazzo o volgarità. Kiki sa di essere innamorata di Luke ma, com’è ovvio che sia alla sua età, questo non la sblocca sul piano fisico, in cui si sente molto insicura. Kiki impara ad esplorare e conoscere il proprio corpo e a sfuggire alle domande imbarazzanti dei genitori sull’argomento.
La sua storia è affiancata a quella di altri personaggi, ognuno con le proprie caratteristiche e le proprie difficoltà. Come ad esempio Ben, che da sempre prova dei sentimenti per Kiki, ma che vedendola allontanarsi tra le braccia di un altro non sa come reagire. Nell’adolescenza il tormento e le difficoltà sono amplificati dall’età e portano i ragazzi molto spesso a sbagliare e inciampare in situazioni più grandi di loro, senza che questi possano prenderne il controllo. Come ad esempio ciò che capiterà a Caro, ragazza indisponente che finisce per dover nascondere un importante segreto.

“La mia prima volta” è un manga intenso, e il fatto che sia formato da soli due volumi aumenta l’impatto che ha sul lettore, bombardato in breve tempo da informazioni ed emozioni in cui può rispecchiarsi, ricordando o fantasticando a seconda su cosa si prova ad avere sedici anni.

Niloo non ha nulla da invidiare ai mangaka capostipiti degli shoujo, perché è in grado di farsi notare imponendo nel panorama fumettistico le proprie opere con delicatezza e raffinatezza.
Preparatevi ai sospiri e ai ricordi che riaffiorano!

Visione: “Death Note”, la recensione del film targato Netflix


« Il karma è una puttana. »

Mettiamo subito le mani avanti: se volete conoscere la vera storia di “Death Note” recuperatevi l’anime oppure il manga. Perché se pensate di guardare questo film convinti che possa darvi un motivo per informarvi maggiormente sull’opera originale siete totalmente fuori strada.
Il film diretto da Adam Wingard non ha bisogno di una vera presentazione: il giovane Light Yagami (occidentalizzato in Light Turner) entra in possesso del maledetto quaderno della morte, arma con cui inizia ad uccidere i criminali per ripulire il mondo dal marcio umano. Potete vedere il trailer nel mio precedente post a riguardo. 
Ricordo ancora con rammarico il briciolo di speranze che avevo nutrito per questa pellicola: probabilmente sono stata l’unica persona, senza considerare chi, per il film, ci ha lavorato. 
Dirò di più: mi sono sforzata di andare oltre la prima scena che già aveva iniziato a farmi venire il raccapriccio.
Trovarsi di fronte ad un Light impulsivo e attaccabrighe anziché taciturno, riflessivo e calcolatore mi ha sinceramente spiazzato, così come lo sconvolgimento di tutti gli altri personaggi. Ma ho comunque deciso di assecondare il cambiamento, mettendomi nell’ottica di una trasposizione occidentale di un’opera che ha origine da una mentalità orientale. Questo è necessario sottolinearlo: la riflessione che sorge spontanea riguarda l’interpretazione di una stessa situazione calata in un determinato contesto (e cultura) piuttosto che in un altro. Un tassello che poteva essere sinceramente interessante da vedere, ma che si rompe ancor prima di svilupparsi.
Così, Light incarna lo stereotipo del giovane americano allo sbando, pronto a fare sciocchezze per attirare l’attenzione della fidanzata di turno. Non si tratta di giustizia né di eroismo: l’eccitazione e il divertimento di sentirsi potente con e per la propria ragazza la fa da padrone.
Il risultato? Una storia thriller con un potenziale enorme che viene trasformata in uno scadente teen drama dalle pessime e inappropriate canzoni di sottofondo.
Non è possibile empatizzare con la complicità tra Light e Misa/Mia, perché risulta finta ed eccessivamente melodrammatica, nonostante l’interpretazione di Margaret Qualley sia di poco sopra a quella di Nat Wolff. Il nonsense, purtroppo, raggiunge anche L, forse il personaggio più emblematico e amato dai fan. Se inizialmente la recitazione di Keith Stanfield sembri funzionare, rivelando alcuni elementi tipici dell’originale, scade vertiginosamente (a causa della sceneggiatura, non dell’uomo) nell’ultima mezz’ora di film, in cui si lancia in ridicole scene d’azione ed inseguimento spinto dal puro senso di vendetta. Questo comportamento non solo è diverso da quello del vero L, ma è addirittura incoerente con la rappresentazione del personaggio dello stesso film: la filippica sull’addestramento per diventare il detective migliore del mondo fin dalla tenera età ne è la lampante prova.
Purtroppo non scampa al disastro nemmeno lo shinigami Ryuk, interpretato dal meraviglioso Willem Dafoe, che probabilmente si sarà fatto una sana risata per poter stare allo scherzo in cui, forse per errore, è stato coinvolto. Il continuo mantenere il personaggio in penombra o fuori fuoco, come a non volerlo mostrare davvero al pubblico, ha reso irritante ogni sua apparizione, tanto da farmi preferire la computer grafica del Ryuk dei film orientali.
Per il poco in cui compare, Dafoe rimane il talentuoso attore che tutti conosciamo, riuscendo senza alcuno sforzo a fare il proprio lavoro, con professionalità e impegno.
Ancora una volta siamo di fronte ad un prodotto con una grande capacità ridicolmente sprecata, in cui gli elementi chiave dell’opera giapponese vengono solo accennati e riutilizzati a piacimento del regista senza seguire una logica, smorzando la tensione e arrivando ad annoiare lo spettatore.
Non sono in grado di mettermi con lucidità nei panni di chi l’opera originale non la conosce, sarei quindi curiosa di avere un parere da parte di chi non sa nulla sull’argomento.
La speranza iniziale si è trasformata in amarezza che, per mia fortuna, scivolerà via molto presto.

Death Note: trailer e data d’uscita per il film targato Netflix

« In fondo l’ho sempre pensato… questo mondo fa schifo. »

Improvvisamente, un quaderno cade dal cielo e finisce sulla Terra.
Un ragazzo lo raccoglie.
Sulla copertina, una scritta: “Death Note”.
Questa scena mi fa tornare indietro di una decina d’anni, quando Mtv era ancora un canale di musica e il martedì sera trasmetteva “Anime Night”, un appuntamento fisso grazie a cui ho sviluppato la mia passione per l’animazione giapponese.
L’anno scorso, la piattaforma Netflix ha annunciato la produzione dell’adattamento a film di “Death Note”, opera scritta da Tsugumi Oba e disegnata da Takeshi Obata. La serie manga viene pubblicata dal 2003 e portata in Italia tre anni dopo dalla casa editrice Planet Manga. Dal 2016 viene inoltre creata una serie animata, formata da 37 episodi e disponibile anche in italiano.
In poco tempo e nonostante le tematiche controverse, “Death Note” diventa un fenomeno a livello mondiale, con diverse opere derivate tra cui due live action di produzione giapponese, musical e videogiochi.

La storia è incentrata sulla vita dello studente modello giapponese Light Yagami, il quale entra in possesso di un quaderno dai poteri straordinari: il Death Note (quaderno della morte), che ben presto si rivela essere una vera e propria arma.
Citando la prima regola: “L’umano il cui nome verrà scritto su questo quaderno morirà”.
Affiancato dallo shinigami Ryuk, Light prende l’identità segreta di Kira e si dichiara difensore dei più deboli, iniziando ad uccidere i criminali più sanguinari per rendere il mondo un posto migliore. Le cose per lui si complicheranno, quando l’investigatore L si metterà sulle sue tracce, seguendo la scia delle misteriose morti.
Chi riveste davvero i panni della giustizia?
Contrastanti sono state le opinioni, già di fronte alla presentazione del cast: una decisione che ha fatto scalpore su tutte, è sicuramente la scelta dell’attore Keith Stanfield per il ruolo di L, in quanto il personaggio originario non ha la pelle scura.
Che ci sia l’intenzione di rendere l’opera più occidentalizzata può anche essere accettabile, ma il timore generale è che venga attuato uno stravolgimento tale da distorcere la storia creata dai due mangaka.
Pochi giorni fa, è stato rilasciato il trailer (sia in inglese che in italiano), che riporta come data di uscita il 25 agosto.
Nonostante gli insensati capelli ossigenati dell’attore, questi 55 secondi sono riusciti ad emozionarmi e incuriosirmi, come quando vidi per la prima volta l’episodio pilota trasmesso in televisione.
Non vedo l’ora di capire come Adam Wingard abbia strutturato il film e cosa verrà rappresentato, sperando che la decisione di accorpare tutta la storia in due ore (almeno, così parrebbe dalle notizie rilasciate) sia stata studiata nei minimi dettagli.

#OTTER VALENTINE – Day 5 – “Tom Sawyer” di Shin Takahashi

« Mi immersi completamente in quel gioco dimenticando di tornare a Tokyo. Sembravamo due stupidi ma ci divertimmo un sacco, ridevamo e sghignazzavamo. Come se bearci di essere così sfortunati fosse il nostro passatempo preferito. E poi riprendevamo a ridere forte, strofinandoci il naso con le mani infangate e abbracciandoci tra le lacrime. »

Eccoci arrivati alla quinta tappa di S. Valentino, con il manga di Shin Takahashi: “Tom Sawyer”.




Titolo: Tom Sawyer
Autore: Shin Takahashi
Categoria: Shoujo

N. Volumi: 1
Editore: JPOP
Stato: COMPLETATO


L’opera è liberamente ispirata al romanzo per ragazzi di Mark Twain: “Le avventure di Tom Sawyer”. Il mangaka è inoltre l’autore del più celebre e apprezzato: “Lei, l’arma finale” (di cui parlerò successivamente, perché merita davvero tanto).
Haru è una ragazza diciottenne che si trasferisce in campagna, nei luoghi della sua infanzia, in occasione del funerale della madre. I paesani la evitano per il suo carattere ribelle e per la cattiva fama della madre, la quale ha cresciuto una bambina da sola, senza avere accanto un uomo.
Le giornate estive sono calde e afose, ma l’atmosfera che si respira è malinconica, i tuffi a cui si assiste sono quelli nel passato della ragazza, la quale ricorda gli sguardi pregiudizievoli di chi nemmeno la conosceva e il rimpianto di aver lasciato il liceo artistico, rompendo così un sogno.
Proprio in mezzo alla tristezza, Haru conoscerà il tredicenne Taro, che l’accoglierà nel suo gruppo di amici facendola sentire apprezzata e la rallegrerà portandola in mezzo a mille avventure, misteri irrisolti e tesori nascosti.
Entrambi i personaggi hanno una psicologia unica e complessa, tipica delle opere di Takahashi. Il mondo rappresentato è quello di una figura adulta, spesso indifferente e fin troppo razionale contrapposta alla figura dei bambini, spensierati e liberi. Il legame che unisce Haru e Taro va oltre ogni pregiudizio e annulla il divario costituito dalle loro età, regalandoci una favola delicata, con un pizzico di divertimento e di tristezza.
In Italia il manga è edito da JPOP, che ha pubblicato un albo di oltre 300 pagine in un formato comodo da sfogliare e dal prezzo contenuto per la qualità del volume.