« Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro. »
Il mondo è vittima dell’umanità, l’umanità è causa del suo male. Ora non c’è più vita, l’uomo è costretto a sopravvivere in mezzo alle macerie, a difendersi dai suoi simili. “Homo homini lupus”, “Mors tua, vita mea”.
Ecco cos’è l’apocalisse: lo specchio di un animale portato all’egoismo, alla crudeltà e alla ritrosia. Per avere salva la pelle non si può vendere l’anima o rinchiuderla in un quadro, ma combattere e vincere la selezione naturale nella speranza che passato l’inferno si ristabilisca un nuovo equilibrio.

Cormac McCarthy riduce tutto all’osso, come è giusto che sia: i dialoghi minimi, nemmeno scanditi dalla punteggiatura, le descrizioni lunghe racchiuse in frasi molto brevi. Come se anche la scrittura fosse stata danneggiata dalla catastrofe. L’insieme apparentemente povero rende preziosa questa storia semplice e ricca di emozioni.
Individuare ciò che è valido per un vero post-apocalittico è difficile, specie in un’opera dove un reale combattimento non è presente. Ma qui la lotta è lo svegliarsi ogni mattina e avere la forza di alzarsi e proseguire il viaggio; la fortuna di gustarsi un torso di mela e godere anche solo di una goccia d’acqua; la forza di non diventare come tutti gli altri che rinunciano alla ragione e si trasformano in altro. La lotta è quella fatta insieme, resistendo e sostenendosi a vicenda, con l’obiettivo comune di percorrere la strada e arrivare ad un traguardo.
Bellissima recensione. Qui il nemico, l'antagonista, è il sistema stesso o meglio: ciò che ne rimane, e che si riversa malamente nei superstiti.
Io l'ho trovato come la descrizione di una delle più commoventi trasmissioni d'amore di un padre per suo figlio.