Review Party: Recensione di “Il capofamiglia” di Ivy Compton-Burnett

Duncan Edgeworth è colui che può essere definito il capofamiglia perfetto: marito insensibile, padre-padrone, criptico in qualsiasi decisione da prendere. La famiglia Edgeworth vive il quotidiano in relazione all’uomo, gustandosi la normalità di ogni singolo giorno, dando vita però a una serie di scontri verbali subdoli e sottintesi che non annoiano di certo chi gira intorno alla sua figura. La normalità, però, viene sconvolta da un lutto improvviso, quello della moglie Ellen, che metterà a repentaglio lo status quo di tutti loro, rovesciando le apparenze e i falsi buonismi.
Con “Il capofamiglia”, Ivy Compton-Burnett descrive con cura e raffinatezza una condizione famigliare distorta e deviata, in cui le reali intenzioni dei personaggi coinvolti prendono il sopravvento attraverso la calma apparente, fino a sfociare in un fiume in piena. Anche la scena più convenzionalmente cordiale viene qui riscritta sotto un punto di vista inaspettato che fa cambiare al lettore continuamente prospettiva e nel complesso è portato a riflettere e a mettere in discussione qualunque cosa presentata. I rapporti tra i famigliari sono costantemente in tensione, ciò dà ritmo alla narrazione e fa in modo che una trama apparentemente semplice coinvolga e incuriosisca.
Il lutto è un evento che spacca definitivamente la vita degli Edgeworth, tanto forte quanto inaspettato, squarcia le menti di Duncan e delle figlie che si risvegliano come da un lungo sonno spaesati dalle proprie sensazioni e dai propri nuovi intenti. Sentendosi più energici che mai, anche se distrutti dal dolore interiormente, faranno di tutto per prendersi ciò che pensano sia proprio. Nance e Sybil, guidate dall’egoismo, non accettano che il padre possa rifarsi una nuova vita accanto a una donna a loro sconosciuta, che non mancherà di far sentire la propria presenza sminuendo spudoratamente chi l’ha preceduta. 
Ben presto l’atmosfera diventa grottesca, quasi surreale, in un sali e scendi da capogiro che rende la lettura piacevole e nel complesso inaspettata.

Review Party: Recensione di “La ragazza con la macchina da scrivere” di Desy Icardi

Ci sono eventi della vita cui una persona può assistere solo guardando dall’esterno, perché è impossibile comprendere come sia passarli in prima persona.

Dalia è sempre stata una donna attiva e libera, eppure ora con la vecchiaia un ictus l’ha imprigionata nel suo stesso corpo. Ma qualcosa di prezioso può dare voce ai suoi pensieri e ricordi: muovere i polpastrelli sulla sua Olivetti e lasciare che le parole prendano forma attraverso la scrittura.

Così, entriamo in contatto con la Dalia del passato, una donna che dal presente si evince essere sempre stata forte e che dalle difficoltà ha imparato a rialzarsi ogni volta senza mai darsi per vinta. Dalia diventa così un punto di riferimento per trovare in sé stessi il coraggio di inseguire i propri desideri affrontando le paure per l’ignoto sempre a testa alta.

Il contesto storico in cui la storia è ambientata è ben definito e costruisce una cornice attorno alla vita della protagonista senza invadere il fulcro ma adattandosi a esso. L’opera scorre intensa e al tempo stesso veloce, grazie allo stile di scrittura della Icardi che travolge per la quantità di emozioni che riesce a trasmettere e in cui i lettori possono ritrovarsi ed esplorarsi.

È davvero difficile non apprezzare la penna di Desy Icardi, che con naturalezza mi conquista a ogni pagina, facendomi appassionare ai personaggi e alle ambientazioni da lei create, con una sensibilità estrema che mi commuove e mi fa desiderare di essere migliore.

Review Party: Recensione di “Il diritto di opporsi” di Bryan Stevenson

« Quando consentiamo che gli altri vengano maltrattati siamo tutti coinvolti. L’assenza di compassione può corrompere la dignità di una comunità, di uno Stato, di una nazione. Finché tutti soffriamo della mancanza di pietà e condanniamo noi stessi tanto quanto rendiamo vittime gli altri, la paura e la rabbia possono renderci vendicativi e violenti, ingiusti e scorretti.  »

Attraverso la sua opera, “Il diritto di opporsi”, l’autore fa un’esamina minuziosa della storia dell’incarcerazione dal momento in cui lui, per primo, ha a che fare con un prigioniero la cui condanna a morte è stata posticipata di almeno un anno. Quel primo incontro è per lui illuminante e sorprendente, e lo spinge a continuare sulla strada della Legge, ma soprattutto a inseguire i diritti umani che questo comporta. Le pene capitali Americane sono brutali, retrograde e ingiuste soprattutto agli occhi di chi ha vissuto in un paese dove la morte per i crimini non è contemplata. Lui però ha sempre vissuto in una realtà in cui questo è normale, ma non così tanto come parrebbe.
Al fianco di questa tematica, Stevenson vive inoltre la lotta al razzismo, che può toccare con mano essendo lui nato con la pelle di un colore che ha sempre suscitato il pregiudizio di tanti e le reazioni violente di molti, più di quanti se ne possa quantificare. L’autore fa di tutto questo una ragione di vita e lotta ogni giorno per rendere umano un sistema giudiziario che non riflette l’umanità, la carità, la fiducia nel prossimo. L’avvocato cerca di denunciare i sotterfugi per incastrare un imputato, la falsificazione di prove, i cavilli a cui aggrapparsi sia per accusare che per difendere, su un costante filo del rasoio che trasmette ogni istante di tensione e timore per il futuro.
“Il diritto di opporsi” è una riflessione sul significato di essere umani e il tutto viene trasmesso attraverso un linguaggio alla portata di tutti, senza esagerare con tecnicismi che solo gli “addetti ai lavori” possono davvero capire. Questa è un’opera per tutti e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta, nonostante un ritmo lento dato dall’analisi minuziosa della storia stessa. Non è una storia semplice da seguire, richiede molta concentrazione e impegno, ripagati alla fine da un senso di speranza che potrebbe davvero cambiare il modo di pensare generale e incoraggiare a non abbassare la testa di fronte alle ingiustizie.

Review Party: Recensione di “Eugenia” di Lionel Duroy

« Per un periodo la scrittura l’ha salvato, pensava che fosse quella cosa tanto attesa, tanto sperata che lo avrebbe sostenuto, che gli avrebbe per sempre dato la voglia di vivere. E poi invece il miracolo non è durato. La scrittura l’ha entusiasmato quando scriveva i suoi primi romanzi, all’inizio degli anni Trenta, ben prima di dedicarsi al teatro, ma non gli ha portato nessuna tranquillità, e men che meno felicità »

A cavallo della seconda guerra mondiale, lo scrittore Mihail Sebastian ripercorre le ingiustizie e le vicende che caratterizzano la situazione antisemita della Romania. Non è un compito facile quello che si assume, ma può contare sull’incredibile appoggio di una straordinaria donna, Eugenia, che mette in discussione la sua intera vita per un ideale molto più alto di qualsiasi precetto. Con la morte del giornalista, la donna si trova sola con un dolore straziante che la riporta inevitabilmente nel passato, a quegli anni di terrore che non possono davvero essere dimenticati.
Lionel Duroy ha saputo con successo riportare con chiarezza e precisione uno spaccato degli anni Trenta che mostra un punto di vista totalmente differente e interessante rispetto a storie con tematiche del genere più “classiche”. Lo fa attraverso la spiegazione di un quotidiano difficile da vivere e con gli occhi di personaggi realistici e forti. Eugenia, frutto della mente dell’autore, affianca Sebastian andando contro la sua famiglia, gli insegnamenti, i discorsi tremendamente razzisti e un futuro con ottime prospettive. Non è semplice questo cambio di posizione, tanto da sorprendere lei stessa, per la forza e la determinazione che oltre le sue aspettative l’hanno accompagnata in questo percorso.
“Eugenia” è un libro che sa appassionare attraverso la passione dello stesso autore, che dettaglio dopo dettaglio costruisce un puzzle di avvenimenti tanto oscuri quanto ricchi di speranza, fino a regalare ai lettori una storia da leggere assolutamente.

Review party: Recensione di “Storia della nostra scomparsa” di Jing-Jing Lee

« Lasciavamo i porci liberi di scorrazzare per il villaggio, come fa la gente oggi con i cani in giardino. I porci sono come le persone: metà buoni e metà diavoli. »

Wang Di vive la sua infanzia e giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale. Un brutto periodo in cui nascere e crescere, perché qualunque cosa può strapparti alla tua felicità. Purtroppo, il destino della ragazza si rivelerà ben presto crudele, quando è costretta a lasciare la sua famiglia per diventare “donna di conforto”, schiava dei militari nemici, costretta a subire ogni loro desiderio senza il suo consenso.
Wang cresce circondata dagli orrori con il nome di Fujiko, e quando la guerra finisce cerca di affossare tutto in un angolo dei ricordi: non ne dovrà mai parlare con nessuno, nemmeno con il futuro marito. Quando questo muore, lei ormai anziana rimane sola a fare i conti con i fantasmi del passato che riemergono svelando una realtà che ancora adesso si fa di tutto per affossare.
Con una scrittura delicata ma estremamente decisa ed emotiva, Jing-Jing Lee cerca di raccontare una storia che possa denunciare la situazione tragica delle “comfort house”, un dramma che ancora adesso il Giappone tenta di nascondere, ma che per fortuna sta sempre di più uscendo allo scoperto anche grazie a scrittrici coraggiose come lei.
L’opera descrive non solo la difficoltà di rimanere umani in periodo di guerra, ma anche e soprattutto essere donna in quegli stessi anni. Wang Di è nata in un contesto dove concepire un maschio era fondamentale e in cui lei poteva sopravvivere soltanto secondo i dettami dell’epoca. Eppure, non sembra mai perdere quella purezza che la caratterizza in ogni pagina, da quando era solo una neonata in fasce fino alla vecchiaia. Ricordare è molto doloroso, ma è un modo che la donna ha per riappropriarsi della propria identità e per confortare, in qualche modo, la sua vita da Fujiko.
“Storia della nostra scomparsa” è un romanzo potente e inaspettato, che scava nelle coscienze, fa riflettere e si pone come obiettivo il più nobile e sempre più difficile da realizzare: insegnare al presente il passato per far sì che non si ripeta in futuro.