Category Archives: Dark Twin
Blog Tour: “Realtà Parallele – Cronache dall’Altro Mondo” di James Clines – Ambientazioni
«Ascoltate, a chiunque trovi questa registrazione.» Parla in fretta ora. «Mia moglie e mio figlio… sono nella casa di campagna a Sunset Street, New Jersey. Non è difficile da trovare… vi prego, mio figlio ha solo dodici anni, è un bravo…» Si interrompe perché non riesce a trattenere le lacrime. Si accascia sul tavolo. Altri colpi alla porta. L’uomo non parla più.
Prestate attenzione al racconto del dottor Robert Skinner, devastato dalla guerra e da un insolito avvenimento durante il suo periodo in Jugoslavia.
Nel quarantatré mi trovavo in Jugoslavia, allora si chiamava ancora così, in un paese di nome Trievlijk. Chiamarlo “paese” è forse un po’ troppo per quel gruppo di casupole abbarbicate su un colle, i cui abitanti erano dei poveracci che cercavano di sopravvivere alla guerra come potevano.
La storia di un gruppo di amici dell’Ohio, coinvolti in un gioco più grande di loro.
Io e Bill siamo nati a Darsey, una minuscola cittadina nel nord-est dell’Ohio, contea di Summit. Niente di speciale: se controllate sulla cartina la troverete a stento. Non sono mai più tornato laggiù, ma credo che non sia cambiato niente. Uno sputo di paese era e uno sputo di paese, probabilmente, è rimasto. Tremila abitanti anima più, anima meno.
Kramer si ferma, si volta lentamente portando le mani sui fianchi. «E la bara c’era?»
Mayers annuisce vigorosamente col capo. «Sissignore, c’era.»
«E me lo dici così? Scusa Frank, ma mi spieghi come cazzo ci è arrivata una bara al diciannovesimo piano di un grattacielo, nel pieno centro di New York e senza che nessuno se ne sia accorto?»
Mayers si stringe nelle spalle, fa una smorfia e scuote la testa «Non ne ho la più pallida idea.» Dà un morso alla ciambella.
Robert Todd era conosciuto in tutta Jackson – mille anime a cinquanta chilometri da Portland nel Maine – come l’uomo che riusciva a trangugiare più whisky di qualsiasi altra persona sana di mente.
Nel tempo che andava dalle sei e trenta del mattino all’una di notte, orari di apertura e di chiusura di Jeff’s, ne poteva bere anche tre bottiglie.
Così, quando la sera del ventitré dicembre del millenovecentosettantotto, irruppe da Jeff’s urlando di aver investito un angelo, nessuno gli prestò troppa attenzione.
Egli abita nel sud della California, in una graziosa casetta di due piani circondata da un ordinatissimo giardino. L’erba viene tagliata ogni due settimane, in modo che la ricrescita non superi i dieci centimetri. Attorno alla staccionata, verniciata ogni sei mesi, fa bella mostra di sé una grande varietà di fiori: rose, petunie, begonie, lillà e crisantemi. Qua e là, come disposte a caso, ci sono alcune statuine raffiguranti animali. La loro disposizione, però, è solo un apparente casualità; in effetti sono state oggetto di un’attenta valutazione da parte del loro proprietario.
L’amore può sbocciare in luoghi e momenti imprevedibili. Su quella panchina del Central Park sta per sbocciare qualcosa di fatale.
Fu durante il nostro ultimo incontro che ci baciammo. Ricordo tutto come se fosse avvenuto cinque minuti fa. Eravamo seduti su una panchina di Central Park. Stavamo parlando, quando le nostre labbra si incontrarono e, voi siete liberi di crederlo o no, fu il bacio più bello e dolce di tutta la mia vita. Forse perché dato da quella che oramai ritenevo la parte integrante della mia anima.
Dopo, cominciò la fine.
A presto, la recensione del libro!
Review Party: Recensione di “Big Bad Bunny” di Samuele Fabbrizzi
Tutto è iniziato come un gioco. Perversione, divertimento, una gita in compagnia. Situazioni diverse, stesso declino.
Il legame tra Demetria, Fargo, Pedro, Jennifer, Sonia e Damasco è appeso ad un sottile filo invisibile, fatto di follia, scontri, fraintendimenti e tradimenti. Sembrano non avere nulla in comune, ma è come se qualcosa di ignoto li avesse uniti, quel giorno, per spingerli a mettersi in viaggio verso un concerto a cui non giungeranno.
Perché sul loro cammino, con prepotenza, si affaccia Los Monstruos. Luogo di inganni, inquietudine ed orrore, pronto a catturarli e intrappolarli in un incubo di dolore e sangue. Ma questo è necessario: solo questo, per la gratificazione del Grande Coniglio.
“Big Bad Bunny” è un horror intenso che, seppur breve, riesce ad instillare nel lettore una paura viscerale, così come l’inquietudine e il giusto voltastomaco per la descrizione di determinate scene. Non è di certo una lettura per tutti, ma un buon trampolino di lancio per gettarsi in un genere di difficile apprezzamento. La crudeltà trasuda dalle parole scritte da Samuele Fabbrizzi, torturando l’immaginazione fino a far credere di assistere davvero agli accadimenti che sconvolgono le vite dei personaggi. C’è qualcosa di sovrannaturale legato al Marvin Hotel di Los Monstruos che va oltre la comprensione di tutti, sia dei protagonisti sia degli spettatori che impotenti osservano dall’esterno. Andare al di là dell’intelletto terreno significa mettere in discussione qualsiasi principio, fino ad insinuare il dubbio sull’esistenza di un superiore che non dà scampo, che può trasformarti in un burattino cui basta un niente per staccare la testa.
Terrore e mistero si uniscono, perché più del solo timore è l’unione con l’ignoto che manda il sangue al cervello. Conoscere il destino delle vittime diventa quasi una missione di espiazione, per tutte quelle volte che leggendo la preparazione della carne da macello si è distolto lo sguardo dalle parole, per non soffrire ulteriormente.
Mentre le urla continuano a rimbombare.
Blog Tour: “Big Bad Bunny” di Samuele Fabbrizzi – Citazioni cinematografiche
Storielle a parte, di una cosa era sicura: c’era qualcosa nascosto nell’erba, occultato dagli alberi, vestito di tenebra. Qualcosa capace di sfuggire alla razionalità. Qualcosa che neanche il tempo era riuscito ad ammazzare. Qualcosa sopravvissuto al fuoco, ai pregiudizi e al piombo.
Ma Gemma non era intenzionata a scoprirlo.
Era lì per aprire le cosce, non per girare una puntata di X-Files.
Bunny le porse una bottiglietta con il tappo rosso. Lei lo ringraziò con un ampio sorriso monouso. Mentre sorseggiava l’alcol, si accorse che il televisore era impostato su Cartoon Network: trasmettevano una puntata di Bugs Bunny.
«Che succede, amico?» dissero in coro uomo e coniglio.
«Svegliati, cazzo! Mi si sciolgono le palle», insisté Pedro.
Il primo particolare che vide quando Damasco aprì la porta furono i lunghi capelli da metallaro che gli coprivano il volto appiccicato dal sonno.
«Cazzo d’ore sono?»
«Quasi le undici e mezzo, cugino IT.»
Pedro notò che l’amico indossava ancora la maglietta dei Guns ’n’ Roses del giorno precedente. Alle sue spalle, lenzuola arrotolate in fondo al letto, bottiglie di birra sul pavimento e il televisore impostato sui cartoni animati.
«Ti stavi masturbando su Puffetta?»
«Cazzo no, amico.»
«Nottataccia?»
«Ho bevuto come uno stronzo.»
«Qualche problema, amico?» lo beccò Fargo.
«Tranquillizzati.»
«Non rompere i coglioni.»
«Okay, He-Man.»
«Mi prendi per il culo?»
«Fargo», intervenne Sonia.
«Che c’è?»
«Stai rovinando il viaggio. Non fare l’hashtag #guastafeste.»
«Furgoncino mio, regole mie.»
Vi fu un lungo momento di silenzio dove perfino la radio smise di prendere.
Fargo continuava a lanciare sguardi minacciosi all’ex amico, ma Pedro, accantonata l’idea di salutarlo con la manina, aveva deciso di ignorarlo preferendogli i piedi della sorella.
«Che avete fatto ieri sera tornati dal locale?» domandò Demetria per alleggerire l’atmosfera. «A Fargo e Jennifer non lo chiedo neanche. È stato come ascoltare un film porno: insensato e fastidioso.»
Jennifer scoppiò a ridere.
«Dì la verità, avresti preferito partecipare», disse Fargo.
«No, non mi piacciono i threesome fra donne.»
«Uhuh», cantilenò Sonia.
«Quando la volpe non arriva all’uva…» commentò Fargo, impermalito.
«Credimi Fargo, non sei il tipo d’uva che assaggerei.»
Pedro scosse il capo. Non sopportava gli atteggiamenti da maschio alfa, anche se, nel caso di Fargo, erano più atteggiamenti da maschio Alf, l’alieno della serie tv.
«Sono un fiore.»
«Come no. Un fiore di campo sotto una cagata di mucca.»
Damasco prese il cellulare per tenersi impegnato.
In televisione trasmettevano Batman di Tim Burton.
«Preferisco quelli di Nolan», disse Pedro.
«A me piace il Joker di Nicholson.»
«Niente di speciale.»
«Vogliamo parlare di quello di Leto?»
«Dobbiamo proprio?»
Damasco buttò giù un altro sorso di bionda. Sciacquatosi di dosso la calura del giorno, indossava una vecchia maglietta degli Iron Maiden. Teneva i capelli legati. Di tanto in tanto abbassava il capo come una carrozza sulle montagne russe.
«Svegliati», gli ripeté Pedro, osservando la pericolosa inclinazione della bottiglia.
«Un fiore, cazzo, un fiore.»
«Per caso ti hanno incollato la birra alla mano?»
«È una questione d’onore.»
«Ma che…?»
Pedro rinunciò a seguirlo. Stava vaneggiando. Bevve un goccio di tequila mentre guardava Michael Keaton saltare giù da un palazzo ad ali spiegate.
«Questa camera mette i brividi», disse Damasco. «Sembra di essere in quel film…» Si prese un momento per ricordarsi il nome. «Sì dai, quel film dove c’è una coppia che alloggia in un motel e viene assalita da alcune persone.»
«Quello dove dei bastardi uccidono la gente per girare degli snuff movie?»
«Che?»
«Pellicole amatoriali dov’è tutto reale, dal sesso alla violenza, morte compresa.»
Ma Damasco aveva già smesso di ascoltarlo. Fissava lo schermo del cellulare. Le palpebre ammezzate. «Ho solo maiale fra le amicizie di Facebook», disse.
«Buon per te. Comunque il film è Vacancy.»
«Vacancy, cazzo. Bravo.»
Damasco seccò la birra e tentò di fare canestro nel cestino.
Sbagliò.
Gli tornò in mente il cadavere nella boscaglia, Marvin il Marziano, quel poveraccio ustionato, ricostruito e vestito da centurione romano. E quando Gioia gli mostrò una giacca blu cucita a mano, gli inquietanti dubbi divennero agghiacciante certezza. Non sarebbe mai uscito vivo da lì dentro, ovunque egli fosse. Quel finocchio psicopatico lo avrebbe torturato, ucciso, trasformato in Porky Pig e abbandonato in un luogo sperduto del Texas.
Pedro intanto stava ammirando i fenomeni da baraccone dei dipinti appesi alle pareti verdastre. Le stranezze lo affascinavano e in particolar modo anni addietro, influenzato dal film Freaks di Tod Browning, si era documentato sulla storia del Circo nel mondo e sulla figura del “mostro” all’interno della società, la stessa società che alienava il diverso, ghettizzandolo, ma al tempo stesso spendeva denaro per toccare con mano gli errori di Madre Natura. La stessa società che proibiva a nani, microcefali e uomini-bruco di prendere un frappè in un locale qualunque, mischiandosi a gente qualunque, per poi passare il fine settimana ad ammirare quegli stessi abomini, animali allo zoo, scarabocchi umani/disumani da temere e compatire, aborrire e studiare, cacciare e ricercare, nei tendoni, ovviamente, nel loro mondo, lontano dalla quotidianità, dalla normalità e dalle cittadine abitate da gente cristiana.