Nel romanzo “Vorrei farla finita, ma anche mangiare toppokki”, l’autrice Baek Sehee esplora una vicenda che la riguarda personalmente, soffermandosi su un disturbo che l’accompagna dalla gioventù: la distimia.
La distimia è un disturbo dell’umore caratterizzato da sintomi simili al disturbo depressivo. Viene descritto come un disordine cronico di modesta entità in cui il sintomo depressivo è caratterizzato da pervasività e continuità. La distimia non deve essere considerata come una forma minore di depressione maggiore ma come un un disturbo serio che può comportare una importante compromissione della qualità di vita di chi ne è affetto.
Essendo un disordine cronico, chi ne è affetto può credere che l’umore depresso e pessimista sia un suo tratto caratteriale, per questo possono passare diversi anni prima che il soggetto si rivolga a uno specialista e riceva una diagnosi corretta di distimia. Il trattamento è primariamente di tipo psicoterapeutico e poi anche di tipo farmacologico. Secondo le statistiche, il 3-6% delle persone soffriranno di distimia nel corso della loro vita, con una prevalenza leggermente maggiore per le donne che per gli uomini. La prima definizione del disturbo fu data da Robert Spitzer alla fine degli anni ’70 in sostituzione del termine “personalità depressiva”.
La distimia persiste per almeno due anni combinato con almeno altri due sintomi quali insonnia o ipersonnia, affaticamento o bassa energia, cambiamento delle abitudini alimentari e bassa autostima o sentimenti di disperazione. Il trattamento della distimia passa per due fronti: il primo è un approccio di tipo psicoterapeutico che è raccomandato dall’ente sanitario nazionale britannico National Institute for Health and Care Excellence (NICE), una delle istituzioni più autorevoli, come trattamento di prima linea specie nei soggetti giovani. Solo quando l’intervento psicoterapeutico non si rivela efficace, si può optare per trattamenti di seconda linea come i farmaci antidepressivi.