Qualcuno dovrà spiegarmi come abbiano fatto i lettori italiani a vivere fino a ora senza Seanan McGuire. Un’autrice incredibilmente prolifica dal punto di vista letterario, che ha scritto e pubblicato circa cinquanta romanzi in dieci anni, che ha vinto premi, è amata ovunque e ora sta per intraprendere un progetto di trasposizione in pellicola di una delle sue ultime fatiche, quella che per prima Mondadori ha deciso di pubblicare: Middlegame.
Un libro dalla copertina semplice ma dannatamente affascinante, con un incipit che fa davvero girare la testa. Questa è una recensione particolare perché non sarò io a spiegare la storia, ma saranno le parole della McGuire a farvi capire che cosa troverete al suo interno. Un’anticipazione: caos, violenza, magia e legami che trascendono le logiche dello spazio e del tempo.
Se fosse sveglia lo ragguaglierebbe con appagato scrupolo circa la quantità esatta di sangue versato sul pavimento. Osserverebbe il disastro, calcolerebbe senza la minima difficoltà superficie e volume del liquido e trasformerebbe i dati in un numero concreto, preciso al millesimo. Lo farebbe per rassicurarlo, anche se il numero dovesse significare “sto per lasciarti”. Anche se dovesse significare “da qui non si torna indietro”.
Anche se dovesse significare addio.
E forse in effetti sarebbe rassicurante, almeno per lei. I conti tornerebbero,
e questa è l’unica cosa che Dodger ha sempre chiesto alla vita. Lui invece, lui che conosce le parole giuste per descrivere la situazione – dissanguamento, ipovolemia, emorragia –, non trova nelle parole il conforto che lei trova nei numeri. Non gli è mai stato possibile.
I numeri, fintanto che si comprendono le norme che li regolano, sono entità semplici, disciplinate. Le parole, al contrario, sono insidiose. Si aggrovigliano e mordono e pretendono attenzione. Roger riflette su come cambiare il mondo. Sua sorella, semplicemente, lo cambia.
Sono parole magistralmente messe in fila l’una all’altra, che esprimono con un’incredibile forza la drammaticità di un momento, sconvolgendo fin da subito il lettore che non si aspetta un inizio che prenda lo stomaco tirandolo da una parte all’altra. Sono parole anche quelle che Roger ama utilizzare, attraverso cui si esprime e riesce a comprendere il mondo, tutto al contrario di Dodger, la gemella, che delle parole non sa che farsene ma che compensa il fratello con l’utilizzo della matematica. Una contrapposizione interessante, che senza aggiungere altro dà istantaneamente un quadro chiaro dei protagonisti, alle prese con qualcosa di misterioso in grado di sopraffarli.
La gente che si riempie la bocca con frasi tipo “pietre e bastoni possono rompermi le ossa, ma le parole non mi fanno del male” non capisce che le parole possono essere pietre, pesanti, aguzze, pericolose e capaci di provocare dolore quanto qualunque oggetto contundente. Se qualcuno in cortile ti colpisce con un vero sasso, rimane il livido. I lividi guariscono. E poi mettono nei pasticci; i lividi di solito finiscono con la persona che ha tirato il sasso in punizione e i suoi costernati genitori convocati a discutere di bullismo e cattiva condotta.
È molto raro che con le parole si arrivi a questo punto. Le parole possono essere sparate come una raffica di proiettili quando nessuno guarda, e non lasciarsi dietro sangue o lividi. Le parole scompaiono nel nulla. Ecco perché sono così potenti. Ecco perché sono così importanti.
Ecco perché sono così dolorose.
Noi, ignari e impotenti ma al di fuori di tutto questo, seguiamo con attenzione queste parole che si susseguono, parole che fanno sempre più male perché l’autrice sa come pungere con aghi invisibili, sa quali corde tirare e infastidire. Così, si viene a conoscenza dell’alchimia e della sua più brillante fruitrice: Asphodel Baker.
Perché in principio non ci furono solo Roger e Dodger. Loro ci sono, ma molto dopo, preceduti da tanti che come loro non sapevano per cosa stavano al mondo.
Prima di tutti c’era lui.
Prima di tutti ci fu James Reed.
«Ti rivolterai contro di me, mio splendido ragazzo» dice con una voce che è miele e cicuta. «Mi butterai di sotto e giurerai di aver visto le mie ossa. Prenderai il mio trono, la mia corona e porterai la mi eredità nel nuovo secolo senza mai girarti a guardare che cosa c’è dietro. Sarai la mia fedele mano destra e la mia sinistra infame, e una volta fatta la mia volontà morirai senza un lamento. Farai ciò che io non posso fare, giacché mai tremerà la tua mano, mai vacillerà la tua mente. Mi amerai e mi odierai e dimostrerai che avevo ragione. Soprattutto, dimostrerai che avevo ragione.»
Appoggia la boccetta e prende una fiala colma di liquido di stelle, la madreperla che danza e risplende al di là del vetro. Gliela avvicina
alle labbra e ne versa una goccia.
L’uomo che ha assemblato con pezzi di cadavere sussulta, spalanca gli occhi e la guarda con impaurita meraviglia.
«Chi sei?» chiede.
«Asphodel» risponde lei. «La tua maestra.»
«E io chi sono?».
Sorride. «Il tuo nome è James. Sei il principio della mia somma opera.
Benvenuto. Abbiamo molto lavoro da fare.»
Continuando a guardarla, l’uomo si mette a sedere. «Ma io non so
nulla di questo lavoro.»
«Non preoccuparti.» Il suo sorriso è la prima pietra di quella che un giorno chiamerà la strada improbabile. Oggi, ora, in questo preciso
momento, comincia il loro viaggio verso la Città Impossibile.
«Ti insegnerò io» dice, e il dado è tratto.
Da qui non si torna più indietro.
James Reed, che diede vita ai bambini in un modo che non si definirebbe solitamente normale. Un uomo criptico, ma concentrato su degli obiettivi crudeli, che manipola cose e persone senza mai guardare in faccia nessuno. Un villain da cui è impossibile sfuggire e che sorprende per la capacità continua di scavare a fondo senza mai arrivare alla fine: a una bassezza ne segue un’altra ancora più malvagia.
Vorrebbe mettersi a urlare, ricordargli che è stato lui a scegliere il silenzio, abbandonandola in un mondo troppo rumoroso, troppo affilato e troppo inflessibile. Non lei. Ricade sulle piante dei piedi, e nel farlo le loro dita perdono l’intreccio. Quando il contatto si interrompe non c’è alcuno shock, almeno non più di quando si è creato. Prima si toccavano. Ora non più. Il tempo lineare può essere molte cose, ma di certo in situazioni come questa non è comprensivo.
Ecco a cosa ci si deve preparare: agli incredibili salti temporali a cui si assiste. Il tempo è un elemento che mi piace ritrovare nelle opere di qualsiasi tipo, ma non è facile da sfruttare e soprattutto non è facile averne il controllo. Serve concentrazione, e se per primo l’autore non è in grado di domarlo non ci riuscirà nemmeno il lettore. In questo Seanan McGuire è davvero brava, perché l’attenzione non cala mai un istante, ogni evento tira e sconvolge, l’inquietudine regna sovrana e non è semplice per i lettori troppo impressionabili superare certe scene. L’autrice non si fa problemi a descrivere nel dettaglio ogni evento, ottenendo come risultato quello di catturare dall’inizio alla fine. Personaggi primari e secondari hanno delle caratterizzazioni incredibilmente realistiche, sembra quasi che siano persone in carne e ossa con cui si può interagire ed empatizzare.
Il finale, poi, non lascia scampo: è un colpo alle viscere che fa male e a cui è impossibile smettere di pensare. Ci sono molte parole all’interno del libro, ma qui svaniscono tutte in un lampo, di fronte al grido sordo dell’ultima pagina che crudele mostra ciò che sarà senza preavviso, perché ormai quando si è arrivati al capolinea è già troppo tardi per frenare e tornare indietro, aspettare ancora e chiudere definitivamente il libro solo una volta che, in qualche modo, si è veramente pronti.
La McGuire è un fulmine a ciel sereno che spero possa splendere ancora attraverso la traduzione di altre sue opere. Devo conoscerla di più e saggiare con maggiore esperienza la sua fantasia, scoprire dove questa l’ha portata e rimanere meravigliata di fronte a tutte le storie che è riuscita a mettere nero su bianco.