«Chi è stato, secondo te?» chiese la piccola. I grandi occhi azzurri coglievano il riflesso del fuoco lontano.
«Ad appiccare l’incendio?» sbuffò Eliana, scuotendo il capo. «Ci sono solo due motivi.» Accennò con la mano sinistra verso il disastro che divorava buona parte dell’orizzonte. «Il primo è la paura e il secondo è la stupidità. Conosco chi viveva laggiù e credo si tratti di entrambe le cose.»
La ragazzina non commentò, si limitò a spostare lo sguardo verso l’incendio, le mani che afferravano il bordo in mattoni ai lati del viso.
Tre giorni di fuoco, morte e terrore.
Sbagliato, si disse Eliana, non tre giorni ma tre notti. Il fuoco durante le ore di luce era solo un effetto collaterale del terrore che sopraggiungeva con il tramonto. Ciò che non era stato ancora bruciato veniva dato alle fiamme appena il terrore tornava a manifestarsi. Il moncone del braccio destro prese a pulsare allo stesso ritmo del cuore, un’agonia sorda che non sentiva da un pezzo. Era serata di grandi ritorni, a quanto pareva.
Da cosa stava scappando? Cosa la stava inseguendo nella sua mente?
Lene si spostò in silenzio, prese il blocco di fogli e iniziò a tracciare linee con il pezzetto di legno bruciato.
Quel ritratto era molto più facile, sia per le mani che per l’anima, rispetto a quello dell’essere derelitto ammazzato nel pomeriggio.
Lene tracciò le linee decise del volto, le labbra sottili che parevano essere dure anche nel sonno, i capelli corvini tagliati corti ai lati e la massa riccia della cresta che scendeva a coprire un lato del viso. I segni sottili accanto agli occhi, che sembravano così fuori posto in una donna tanto giovane…
Sfumò le linee delle spalle, i muscoli che lasciavano intuire la rigidità sotto il cappotto…
No.
Quel disegno era tutto sbagliato. Per quanto fosse fedele all’immagine che aveva davanti, aveva fallito nel compito fondamentale: non era riuscita a cogliere l’essenza, l’anima della donna che si era presentata con il nome di Licia.
Sollevò il foglio con cura e ricominciò daccapo, questa volta lasciandosi trasportare da ciò che sentiva dentro, non solo da quello che le stava davanti.
Poteva percepire la luce del sole spingere via l’oscurità un po’ alla volta quando terminò di sfumare gli ultimi particolari con il polpastrello.
La pagina mostrava Licia come l’aveva vista quel pomeriggio: inginocchiata nell’erba, il viso poggiato alla canna della sua arma, gli occhi freddi rapiti dalle tacche di mira e dal bersaglio.
«Sì», disse fra sé. «Ora ci siamo.»
La donna si scosse sulla poltrona dove aveva passato la notte.
«Che succede?» chiese, le mani che scivolarono verso il grilletto. Lo sguardo aveva già perso ogni traccia di sonno.
«È l’alba», rispose Selene. «Ho preparato quello che mi serve. Possiamo partire. Lascia solo che metta il fissante su questo. Nel frattempo, mangia qualcosa se vuoi.»